Il termine “blackwashing” si è diffuso negli ultimi anni nei dibattiti pubblici e sui social media, soprattutto in relazione a film, serie TV, pubblicità, fumetti e videogiochi. Per blackwashing si intende l’inserimento, talvolta percepito come forzato o non autentico, di personaggi neri o afrodiscendenti in opere, narrazioni o adattamenti dove originariamente non erano presenti o previsti. Questo termine nasce come risposta e parallelo al più noto “whitewashing” (di cui parleremo più avanti), ma spesso porta con sé discussioni accese, accuse di revisionismo culturale, e riflessioni più profonde sulla rappresentazione e sull’inclusività.
Comprendere cosa sia davvero il blackwashing significa analizzare non solo i singoli casi, ma anche le dinamiche sociali, storiche e mediatiche che lo alimentano.
Il blackwashing ha guadagnato molta attenzione perché tocca nervi scoperti della società contemporanea: la rappresentazione delle minoranze, il bilanciamento tra inclusività e fedeltà storica, e le tensioni razziali. Se ne parla tanto perché viviamo in un’epoca in cui la rappresentazione conta più che mai. Per decenni, le persone nere sono state marginalizzate, stereotipate o completamente escluse da moltissime narrazioni mainstream. Oggi, molti produttori e creatori cercano di “compensare” queste ingiustizie inserendo più personaggi neri, anche in contesti storici o letterari dove in passato non erano presenti. Questo porta alcuni a criticare tali scelte come mosse politicamente corrette, mosse di marketing, o come manipolazioni della verità storica.
Le discussioni sul blackwashing esplodono soprattutto online, dove gli utenti sono pronti a segnalare ogni cambiamento nei casting (per esempio personaggi originariamente bianchi diventati neri in nuovi adattamenti) o ogni revisione visiva in opere preesistenti. Alcuni lo vedono come un segno positivo di progresso e inclusione, altri come una forzatura ideologica che rischia di creare una nuova forma di discriminazione, stavolta al contrario. In realtà, queste tensioni spesso nascono da una più ampia discussione: quanto è importante la fedeltà a un testo originale? E quanto è giusto aggiornare le rappresentazioni per rispecchiare una società più inclusiva e variegata? Non esiste una risposta univoca, ma è certo che il blackwashing fa parte di un cambiamento più grande, in cui media, cultura e pubblico stanno cercando un nuovo equilibrio.
Il blackwashing nel cinema e nella TV
Nel mondo del cinema e della TV, il blackwashing è diventato un tema caldo soprattutto per via di remake, reboot, adattamenti live-action e produzioni storiche. Alcuni esempi noti includono l’Ariel nera nel live-action della Disney “La Sirenetta” (2023) e l’inserimento di personaggi neri in serie ambientate in epoche storiche dove la loro presenza era improbabile.
Da un lato, queste scelte vengono giustificate dai produttori con l’idea di rappresentare meglio la diversità del pubblico contemporaneo e di offrire modelli di ruolo positivi a bambini e adolescenti neri. Dall’altro, scatenano polemiche su fedeltà e verosimiglianza. Alcuni critici sostengono che tali modifiche siano operazioni di marketing pensate per cavalcare l’onda della correttezza politica, senza però un reale impegno per la causa delle minoranze. Altri osservano che molti di questi cambiamenti non sono accompagnati da una reale trasformazione delle storie, dei ruoli di potere o delle narrative, rischiando quindi di restare solo a livello superficiale.
Va anche detto che l’industria cinematografica e televisiva storicamente ha avuto un problema di rappresentazione: per decenni attori neri sono stati relegati a ruoli marginali o stereotipati. Per questo, molti difendono la presenza crescente di attori neri in ruoli centrali, anche quando si tratta di reinterpretazioni di storie già conosciute. Tuttavia, rimane la sfida di farlo in modo autentico, evitando di cadere nel semplice “cambio di colore” senza un lavoro più profondo sui personaggi e sulle trame.
Ricordo ancora quando ho visto per la prima volta una serie tv con un cast multietnico: non ci ho pensato troppo, mi sembrava normale. Non mi sono fermata a riflettere sul perché ci fossero attori neri, asiatici, latini tutti insieme in una storia ambientata in Europa o negli Stati Uniti: semplicemente, l’ho accettato. Ma col tempo ho capito che questa “normalità” che percepivo era in realtà il risultato di decenni di battaglie culturali, di voci rimaste inascoltate, di una crescente attenzione all’inclusione.
Cos’è il whitewashing?
Per capire il blackwashing, è fondamentale sapere cosa sia il whitewashing. Il whitewashing è una pratica consolidata da decenni nell’industria culturale: consiste nel sostituire personaggi di origine asiatica, africana, araba, latinoamericana o di altre minoranze etniche con personaggi bianchi, spesso per rendere il prodotto più appetibile al pubblico occidentale. Un esempio classico è l’adattamento di storie asiatiche o africane con attori bianchi, oppure la cancellazione delle origini etniche di personaggi nei remake occidentali.
Il whitewashing ha avuto effetti profondi: ha cancellato identità, ha escluso attori non bianchi da opportunità lavorative e ha diffuso un immaginario distorto, dove i protagonisti sono sempre bianchi e le minoranze esistono solo ai margini. Negli ultimi anni, proprio grazie alle critiche al whitewashing, si è aperta una discussione sulla necessità di ripensare la rappresentazione etnica e razziale nei media. Tuttavia, questo ha portato anche al fenomeno opposto, il blackwashing, che solleva a sua volta nuove domande: come garantire una rappresentazione giusta, equilibrata, rispettosa? E dove si trova il confine tra inclusività e revisionismo?
Oggi, quando sento parlare di blackwashing, mi chiedo se non stiamo semplicemente facendo fatica ad accettare il cambiamento. E qui vale la pena fermarsi un momento: cambiamento significa una trasformazione, un passaggio da uno stato a un altro, spesso percepito come destabilizzante. Non è solo qualcosa che avviene fuori di noi, ma qualcosa che ci interroga dentro: siamo disposti a mettere in discussione i nostri riferimenti abituali, le nostre idee su cosa è “giusto” o “fedele”?
E ancora, la normalità non è un valore fisso, ma una costruzione sociale: ciò che oggi consideriamo normale (vedere attori neri, asiatici, latini nei ruoli principali) fino a pochi decenni fa era raro, se non impensabile. La normalità cambia nel tempo, si plasma sulle sensibilità e sui valori delle nuove generazioni.
In conclusione, blackwashing e whitewashing non sono solo etichette, ma sintomi di un più ampio dibattito sulla giustizia rappresentativa e sul potere delle immagini e delle storie. Comprendere questi fenomeni significa interrogarsi non solo su chi appare sullo schermo, ma su chi viene visto, riconosciuto e celebrato nella nostra cultura.
Per questo, forse, dobbiamo chiederci: stiamo davvero difendendo la storia e la fedeltà ai personaggi, o stiamo difendendo la nostra abitudine a vedere il mondo in un certo modo? È una domanda scomoda, lo ammetto, ma è proprio da queste domande scomode che può nascere una discussione più profonda e autentica.
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Laura Concardi