Arcilesbica e la polemica sulle donne transgender: perché certe rivendicazioni di “separatezza” sono insostenibili.
Monica Romano, donna e attivista transgender, ci parla del suo neologismo: transgenerità. Ecco cosa significa...
L'avv. Roberto De Felice è l'autore di: "Just Married. Il matrimonio same-sex nella giurisprudenza degli Stati Uniti (1970-2015)".
Hai voglia di una nuova lettura a tema LGBT? Questo è il gruppo che fa per te. Ecco come venire a incontrarci...
Un incontro aperto alle famiglie delle persone transgender: un successo, nonché un momento di confronto necessario.
"Bossy" è un portale on line che si occupa di femminismo intersezionale e parità di genere. Andiamo a conoscerlo...
Silvia Molè ha abbracciato il femminismo, ma anche l'antispecismo e l'antibinarismo. Quale "fil rouge" li unisce?
Arcilesbica e la polemica sulle donne transgender: perché certe rivendicazioni di "separatezza" sono insostenibili.
La vita di Tamara de Lempicka si divide tra realtà e pettegolezzo. Ma una cosa rimane ai posteri: le sue visioni amorose di uomini e donne...
Ne "L'isola di Arturo", celebre romanzo di Elsa Morante, Wilhelm è il padre del protagonista. Il suo orientamento sessuale è un segreto...
Il circolo "Harvey Milk" di Milano, ai tempi, attuò diverse iniziative per raccogliere fondi. Una di queste era un servizio di massaggi ...
Arcilesbica e la polemica sulle donne transgender: perché certe rivendicazioni di “separatezza” sono insostenibili.
Essere donna ed essere transgender, tra corpi e binarismo… Cosa vuol dire? Parlano due attiviste esperte.
Andare a scuola con la gonna è la scelta dei ragazzi canadesi contro il retaggio culturale legato all’abbigliamento. Fra questi ragazzi c’è Colin Renauld è uno studente canadese molto sensibile al tema del sessismo e della discriminazione nei confronti delle donne.
Questa sua sensibilità lo ha spinto a seguire un nuovo movimento che si è diffuso fra i giovani nel suo paese. Questa nuova forma di attivismo spinge i ragazzi ad andare a scuola ogni mercoledì indossando una gonna.
Lo scopo di questa attività è combattere l’ipersessualizzazione del corpo femminile e superare i canoni che stabiliscono a priori cosa è opportuno indossare in base al proprio sesso.
Colin ha abbracciato la causa e si è presentato a scuola indossando una gonna. Nonostante l’Istituto Villa Maria abbia adottato dal 2015 una politica di uniformi miste, Colin all’entrata è stato fermato da un inserviente e accompagnato dal preside perché il suo abbigliamento risultava inappropriato.
A mettere fine all’imbarazzante situazione ci ha pensato un’assistente del preside. La responsabile ha infatti ribadito che l’istituto Villa Maria è una scuola inclusiva che consente agli studenti e alle studentesse la libertà di scegliere se indossare gonne o pantaloni. Il maldestro inserviente ha porto le sue scuse a Colin e la questione non ha avuto ulteriori conseguenze.
Il movimento al quale ha aderito Colin si sta diffondendo molto velocemente fra i ragazzi di altri istituti ed il fenomeno è in costante crescita. La cosa veramente importante è il messaggio di inclusione ed empatia che accompagna questa storia.
È fondamentale comprendere l’importanza di rendere consapevoli le nuove generazioni circa la gravità delle discriminazioni sessuali e di alcuni codici e comportamenti non appropriati. Solo da questa consapevolezza si possono porre le basi contro ogni forma di violenza, abuso e discriminazione.
Sarebbe molto bello importare questo modello di scuola inclusiva e aperta al dialogo anche nel nostro paese dove purtroppo i tabù legati al sesso sono ancora molto radicati nella nostra cultura. Solo aprendo la propria mente ed eliminando pregiudizi e preconcetti si può veramente questo tipo di violenza e abuso.
Se non si combatte il retaggio culturale che è alla base di certi comportamenti non si riuscirà mai a raggiungere un piena consapevolezza su certi temi.
Per questa ragione è importante impedire che il pregiudizio si insinui nella mente dei bambini e delle bambine si dalla più tenera età. In questo le famiglie ma soprattutto la scuola hanno un importanza vitale.
Solo combattendo il retaggio culturale si può eliminare il problema alla fonte.
Aborto e Gun Control: a pochi giorni dall’ultima strage consumatasi in America, nello specifico in Texas, avvenuta per mano di un ragazzo di 18 anni nella scuola elementare di Uvalda, l’opinione pubblica è tornata ad esprimersi sulla tematica e sul diritto, costituzionalmente garantito dal sistema statunitense, al possesso di armi da fuoco.
Il secondo emendamento è da anni e forse da sempre nel mirino di quella parte di politici, attivisti ed associazioni che rintracciano in detta norma, non l’unica, ma sicuramente la maggiore fonte e il più grande lasciapassare dei migliaia di episodi di violenza che devastano il Paese. Secondo uno studio del Gun Violence Archive, solamente durante l’anno in corso si sono registrate più di 200 stragi che coinvolgevano l’utilizzo di armi da fuoco, per un totale di più di 6000 vittime.
La realtà che si fotografa in America denunciata da molti, come dallo stesso ex presidente Obama in un suo discorso sul gun control nel 2016, è una realtà piegata alle lobby del commercio e della produzione delle armi.
Questa situazione è asservita però non unicamente al mercato economico, ma soprattutto al settore politico capeggiato dai conservatori, nella strenua difesa di quel diritto che si trasforma nella morte dei civili, nel caso, dei bambini.
Si muore andando a scuola, andando a lavoro. Si muore al momento considerato opportuno, da altri.
Si lascia la vita nel nome di interessi ed ideologie che non ci appartengono, che sono votate alla violenza e a “principi” di paura dell’altro e discriminazione che alimentano l’odio e la paura.
Tutto questo negli USA si accompagna, come gli ultimi mesi hanno dimostrato, alla spinta di eguale violenza nel voler negare i diritti di salute e di autodeterminazione legati al corpo delle donne cisgender e transgender.
Se rimane vero (per ora) che l’aborto è pratica legale e tutelata dal diritto costituzionale negli Stati Uniti dal 1973, grazie alla sentenza della Corte Suprema “Roe vs. Wade”, è anche vero che enormi gruppi politici e non, si sono mossi affinché di tutto questo non resti che un ricordo confuso, una polaroid in un film di Nolan che ci racconta la nostra angoscia.
I conservatori americani, che ci ricordano nei modi e negli obiettivi forse qualche fazione nazionale, vogliono comprimere, nella migliore delle ipotesi, annullare, in quella che ci sembra purtroppo più verosimile, la possibilità di scelta, la libertà di decidere sui propri corpi.
Al grido di una difesa di bambini che rintracciano in un ovulo fecondato, si propongono di rendere illegali le pratiche abortive di qualsiasi tipo, con l’aggiuntiva possibilità di denunciare chiunque aiuti ad interrompere una gravidanza oltre le sei settimane.
Non serve (o forse sì) specificare che nel caso in cui il processo voluto da queste fazioni arrivasse a compimento, l’aborto rimarrebbe legale unicamente in alcuni Stati.
Tutto ciò avrebbe (come prima della legalizzazione) il risultato ultimo dell’esclusione non delle pratiche abortive, ma solo di quelle non clandestine, solo di quelle sicure.
Il quesito che, sporco di rabbia, si è annidato ed è poi esploso nelle nostre coscienze è solo uno:
la vita che tanto vogliono proteggere, passando sopra i diritti e la salute delle donne cis e trans, il feto che deve sopravvivere, per quanto deve farlo?
Per quanto tempo rimane interesse di un puro ideale (come dipinto dai conservatori) la protezione di una vita? Forse fino alla prossima sparatoria in una strada, in un negozio, fino alla prossima lezione in classe con altri compagni, con altre vite.
I Pro-life, come altri meno palesi, vogliono i bambini vivi quel tanto che basta per morire al momento opportuno.
Alle donne americane “auguri e figli maschi”, magari bianchi, magari cisgender e con dei diritti.
Fino alla prossima strage.
Giovanna Conte
Per altri nostri articoli sull’aborto.
Che tu sia un neofita o un veterano, questa importante domanda ha assillato anche te.
Qui di seguito una piccola panoramica sui mezzi che hai a disposizione.
Il tape è un nastro simile ad un cerotto ospedaliero ma più elastico, generalmente dotato di una colla molto resistente. Viene utilizzato per fare pressione sul tessuto mammario ridistribuendone il grasso sottocutaneo in modo da appiattirlo il più possibile. Ne viene consigliato l’utilizzo alle coppe di medio-piccole dimensioni (di solito sotto una coppa C), perché spesso non garantisce una compressione sufficiente per taglie più grandi. Viene venduto anche online con misure diverse, che potete scegliere in base alle dimensioni del vostro petto o in base al modo in cui lo andrete ad applicare.
PRIMA di applicare il tape assicuratevi che la vostra cute sia pulita e intatta e coprite i capezzoli con del cerotto in modo che non siano a contatto diretto con la colla.
Per applicarlo consiglio di prendere prima le misure della sezione di nastro da tagliare e poi procedere a crearne i segmenti necessari. Per applicare il primo pezzo di tape di solito si procede paralleli alla linea intermammilare, che è la linea immaginaria che unisce i due capezzoli.
Sollevate parzialmente la linguetta di carta che protegge la parte con la colla e applicate il primo pezzettino di nastro più o meno al centro del vostro petto, leggermente più vicino alla parte da fasciare. Ora scollate un po’ per volta la parte in carta e fissate il cerotto al petto tirando gentilmente il nastro verso l’esterno mentre lo applicate. In questo modo da otterrete l’effetto contenitivo. Terminate l’applicazione fissando l’ultimo pezzo di nastro senza tirarlo, in modo da non essere scomodi. Potete applicare un secondo o anche un terzo pezzo di tape se necessario, sia parallelo al primo sia obliquo. Provate a fissarne un segmento nel modo qui descritto e di aggiungerne uno al di sopra, in obliquo di 45 gradi come se voleste collegare il primo strato con l’ascella.
Il consiglio più prezioso che sento di dare è però quello di provare: trovate il vostro modo. Ogni corpo è diverso e ogni petto è diverso, perciò il modo migliore di applicare il tape è quello che va bene per voi.
I pro del tape sono che è pratico, non limita la respirazione e può essere portato anche per 3-4 giorni consecutivi. Di solito regge l’acqua quindi potete tranquillamente farvi una doccia tenendo il tape, ricordando di asciugarlo molto bene col phon una volta usciti per evitare qualsiasi danno alla pelle dato dal contatto costante con un tessuto umido.
Tra i contro, dovrete fare pratica nell’applicazione e nella rimozione. Utilizzate dell’olio e lasciate piano piano cedere la colla lasciando in posa circa venti minuti, staccando il tape magari sotto l’acqua calda. Non strappate! Inoltre attenzione alle reazioni allergiche alla colla, che possono sempre essere possibili.
Se siete soggetti allergici è consigliabile fare una prova di applicazione magari su una parte della pelle meno delicata.
Se avete problemi sensoriali con i tessuti potreste avvertire del prurito.
Il binder è una canotta contenitiva con la parte anteriore rinforzata. Se avete intenzione di comprare un binder prendete con cura le misure necessarie e confrontatele con le tabelle taglia presenti in ogni sito.
Evitate i binder con chiusura laterale o anteriore, spesso di scarsa qualità e per questo dannosi, in quando applicano una pressione mirata su alcuni punti della cassa toracica provocando importanti tensioni muscolari e costringendo il torace in una posizione innaturale.
Una volta arrivata la taglia corretta dovrete indossarlo: se è la prima volta pazientate, non andate nel panico! Essendo un tessuto rinforzata potreste metterci un po’ sia nell’indossarlo che nel toglierlo. Un’idea potrebbe essere quella di farvi aiutare da qualcuno di vostra fiducia le prime volte. Lo indossate dall’alto facendo attenzione che il tessuto non si arrotoli su sé stesso e poi con calma fate scendere prima un po’ la parte posteriore poi un po’ quella anteriore. Alternate i movimenti fino ad indossarlo correttamente. Prestate attenzione alla respirazione: se respirate con fatica il binder è troppo piccolo e potrebbe essere pericoloso. Un binder di taglia corretta dovrebbe permettervi una respirazione naturale e non inficiare la libertà di movimento quotidiana. Vivamente sconsigliato l’utilizzo di più di un sistema di fasciatura contemporaneamente (due binder o Tape e binder indossati uno sopra l’altro). Consigliate anche delle piccole pause mentre lo indossate togliendolo per qualche minuto e rindossandolo se necessario.
I pro del binder sono la maggiore inclusività nelle taglie rispetto al tape, il non aderire direttamente alla pelle e il far “respirare” quotidianamente la pelle (perché si toglie più facilmente del tape).
Tra i contro, sicuramente c’è un maggior affaticamento del torace ed una maggiore difficoltà nella respirazione. Il binder copre anche la schiena (il che diventa problematico nella stagione calda), inoltre deve essere tolto dopo un massimo di otto ore di utilizzo, per consentire il riposo delle parti del corpo sotto pressione. Non è possibile dormire con il binder ancora indossato perché potrebbe compromettere la respirazione durante la notte.
Una buona abitudine è quella di assicurarsi un’idratazione sufficiente a funzionare. Quindi, in generale e soprattutto se avete fasciato il petto, bevete abbastanza acqua. Indossando alcuni tipi di binder è sconsigliata l’attività sportiva (informatevi durante l’acquisto o tramite il venditore). Cercate di mantenere una postura corretta per non gravare ulteriormente sulla cassa toracica, ed evitate tutte le altre attività dannose per la vostra salute (il fumo, il consumo di alcol, la sedentarietà, una dieta alimentare disregolata).
Da evitare i rimedi casalinghi, che pur essendo economici e veloci da arrabattare, non sono sicuri e possono danneggiare la salute di chi li usa.
Quando ci si fascia il petto, un errore comune sta nell’aspettativa, nel pensiero “io mi fascio il petto perché lo voglio piatto”. Ma non esistono essere umani fatti in questo modo, perché oltre alla ghiandola mammaria e all’accumulo di adipe (maggiore nelle persone AFAB), nel petto ci sono anche dei muscoli. Quindi non è necessario raggiungere uno standard di piattezza impossibile per la maggior parte di noi, ma l’obiettivo dovrebbe essere quello di utilizzare i dispositivi sopra consigliati per ridurre la disforia nei limiti delle possibilità umane, della sicurezza e della salute.
L’abilismo indica le forme di razzismo contro le persone con disabilità. Talvolta è una discriminazione inconsapevole, basata su un retaggio culturale persistente.
Adesso vediamo le sue origini, in che modo si manifesta e ciò che puoi fare per rompere questa catena di stereotipi.
Abilismo è una parola che trae origine dall’inglese “ableism” (usata principalmente nella lingua inglese americana) e “disableism” (appartente al vocabolario del Regno Unito).
Il termine ha cominciato a diffondersi sul finire degli anni ’80, per definire l’insieme degli atteggiamenti discriminatori attuati contro le persone che presentano una qualsiasi disabilità. Infatti, sono compresi sia gli atti diretti a offendere la dignità dell’individuo, ma anche gli atteggiamenti più o meno intenzionali che creano una situazione di svantaggio.
Troviamo esempi di abilismo in molte occasioni della nostra vita quotidiana. Pensa a quante volte senti battute del tipo:
Luca è proprio un Down! Non capisce mai le lezioni di matematica
Frasi che partono dal presupposto che avere una disabilità è sinonimo di incapacità intellettiva. Uno stigma che rappresenta l’impostazione di pensiero tradizionale, secondo cui un individuo debba essere considerato inferiore e automaticamente incapace di autodeterminarsi in presenza di caratteri che differiscono da quelli statisticamente più comuni.
Ma l’abilismo va oltre alle volute dimostrazioni dirette di comportamenti discriminatori, includendo anche gli atteggiamenti non volontari. Allo stesso modo è fastidioso per una persona con disabilità ricevere complimenti eccessivi, o addirittura sentirsi dire con un velato pietismo:
Non so come tu riesca a sopportare tutto questo! Nei tuoi panni io impazzirei…
Ancora una volta l’approccio con la persona è diverso da quello che comunemente si riserva ad altre cosiddette “normodotate”. Non è necessaria malafede o cattiveria per poter parlare di un comportamento irragionevolmente diverso: l’inclusione sociale ha bisogno che tuttə siano considerati uguali, pertanto meritevoli di pari dignità e soggettə alle stesse regole.
La persona con disabilità non è una macchina da riparare.
Questo tipo di impostazione si riverbera anche nella comunicazione, alimentando l’automatica associazione della capacità intellettiva con ogni condizione di difficoltà oggettiva.
Handicappatə, diversamente abile, disabile, incapace, inabile, persona affetta da disabilità. Tutti questi sono identificativi usati per fare riferimento allo stesso individuo: la persona con disabilità. L’abilismo sta anche nell’usare comunemente tutti quei termini come sinonimi.
Pensa al linguaggio giornalistico. Troppo spesso i cronisti concentrano la narrazione sul corpo, sulle particolarità fisiche e sulle diversità che possono indurre sdegno o compassione in chi legge o ascolta; un comportamento che tende a toccare la mercificazione del fisico per incrementare l’audience.
Ma l’incongruenza interessa anche il linguaggio giuridico. Infatti, ancora oggi manca una definizione univoca della persona con disabilità all’interno delle tante leggi che regolano la materia: norme sui procedimenti giudiziari, normativa sulla previdenza sociale, nella sanità, nel lavoro ecc…
Un’importante fase di cambiamento è cominciata con l’introduzione dell’ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute) del 2001 da parte dell’OMS, con l’obiettivo di creare uno standard di linguaggio e un modello concettuale per descrivere lo stato di salute e non solo.
La rivoluzione dell’ICF sta nell’identificare una persona con disabilità in base alle difficoltà di integrazione con l’ambiente circostante e non più sulle minorazioni fisiche e sensoriali. In altre parole, non interessa più etichettare la persona secondo i suoi “difetti”, ma capire cosa le impedisce di integrarsi appieno nella realtà in cui vive per eliminare ogni ostacolo.
Le caratteristiche biologiche non devono essere l’unico criterio per classificare le persone.
Una concezione obsoleta anche per la scienza, che non condivide i presupposti della discriminazione di genere. È l’impostazione mentale che porta taluni a definire Mario Giordano trans e vittima di bodyshaming.
Sono molte le manifestazioni di abilismo nella vita quotidiana, che riteniamo di minore entità perché siamo quasi assuefatti. Eccone qualche esempio:
Questi comportamenti, uniti ad un linguaggio discriminatorio, costituiscono vere e proprie aggressioni violente capace di turbare nel profondo la sensibilità.
Dicembre è decisamente il mese giusto per chiedersi come combattere e sconfiggere l’abilismo, simbolico per la celebrazione della Giornata internazionale delle persone con disabilità. Il 3 dicembre di ogni anno è dedicato proprio alla sensibilizzazione e protezione dei diritti di tali persone.
Come puoi contribuire al cambiamento? Il primo passo è svincolarsi dal concetto di normalità e andare incontro alla persona umana. Ecco qui poche, semplici quanto importanti azioni:
Fare sempre più informazione e sensibilizzare le coscienze sull’uguaglianza, contro l’abilismo, è un argomento centrale, che coinvolge fasce di popolazione sempre più giovani con ogni mezzo. In questo senso i nuovi media hanno un ruolo chiave, a cominciare dalla pubblicazione di post d’effetto su Facebook o Twitter, continuando con l’evoluzione dei brevi video di TikTok come strumento per rappresentare le minoranze.
C’è ancora tanto da fare, ma paradossalmente ciò che stiamo vivendo con la pandemia ci sta aiutando a mettere al centro la persona umana, livellando le sorti della società che fa i conti con un nemico invisibile. Solo il tempo potrà mostrare l’evoluzione dell’abilismo.
L’ageismo è una discriminazione silenziosa. Tuttavia, è talmente radicato nella nostra cultura da non riuscire a comprenderne la portata. Ma cosa significa ageismo? Il termine deriva dalla parola inglese “ageism” e riguarda il pregiudizio ai danni di una persona in ragione della sua età. Nella nostra società le persone anziane vengono lentamente escluse dalle opportunità di lavoro, dall’accesso a determinate cure e dalla vita sociale. Questa realtà si comprende facilmente, viviamo in una società che esalta giovinezza, bellezza e perfezione. Tutto ciò che non risponde alle regole imposte dalla nostra cultura viene discriminato, basti pensare ad esempio a come si tende a giudicare le persone anche solo per via del loro peso.
Questa forma di discriminazione si amplia ancora di più quando parliamo delle donne. Infatti, mentre gli uomini con l’avanzare del tempo possono ancora avere fascino e godere di una certa reputazione dovuta all’esperienza, questo non vale per le donne. Quando il ruolo di mogli e madri si esaurisce, le donne diventano invisibili, relegate in un angolo. I pregiudizi sull’età diventano feroci quando parliamo di donne che, dopo un divorzio o essere rimaste vedove, decidono di riaprire il proprio cuore e vivere un amore in età matura.
Le bravissime registe Stéphanie Chaut e Veronique Reymond sono le autrici di “Ancora donne, quando l’amore non ha età” un documentario unico nel suo genere. Questa opera narra la storia di cinque donne fra i sessanta e i settantacinque anni alle prese con l’amore e la solitudine in età matura. Questo documentario ci mostra le difficoltà delle donne di una certa età di rimettersi in gioco in amore e combattere contro i pregiudizi della società.
Oggi, grazie alla medicina, abbiamo un’aspettativa di vita più lunga e sarebbe importante permettere alle persone anziane di vivere in modo sereno e appagante la terza età. Il lavoro culturale da intraprendere nella nostra società è immenso. Bisogna superare tabù come quello della percezione dell’amore e del sesso in età matura e anche comprendere che dopo i sessantacinque anni le persone hanno ancora molto da offrire. Chi ha il privilegio di vivere in età matura ha un bagaglio di esperienza che è importantissimo condividere con le nuove generazioni. Abbiamo tanto da imparare dalle persone anziane.
È veramente crudele discriminare qualcuno solo per la sua età anagrafica senza tenere conto delle sue esigenze, dei suoi sentimenti e di quanto sia in grado di offrire. Il primo passo da fare è evitare giudizi che potrebbero ferire la sensibilità altrui. Bisogna cercare di andare più a fondo e cambiare prospettiva, solo in questo modo si potrà piano piano sensibilizzare la società su un tema così delicato che prima o poi riguarderà ogni persona.
Il testo di Torna a casa dei Måneskin parla del nuovo Olimpo. Il sound è piacevole, pulito e semplice. Dopo il terzo ascolto della canzone – la radio la mandava in onda ‘spesso’- una domanda comincia a prender posto in testa:
Capisco che è un’entità generosa, vitale e imprevedibile, un’entità che, quando alzi lo sguardo oltre il naso, è probabile INCONTRARE ma raramente riconoscere.
Siamo educati a guardare per categorie e ciò che oggi spesso inquieta molti è non riuscire a leggere con le proprie categorie il reale. Marlena pare abiti proprio il mondo del rimosso e dell’innominato.
Forse Marlena è qualcosa che manca e a cui aneliamo.
Torna a casa dei Maneskin parla del nuovo Olimpo
“Perché la vita, senza te, non può essere perfetta”
Come l’Olimpo classico rispecchiava le aspirazioni di armonia del mondo classico, anche l’Olimpo del postmoderno rispecchia la nostra ricerca di integrazione. Perfezione è compimento e realizzazione, è aderenza tra idea e realtà. Cosa fare se invece il linguaggio, che disegna il reale, proprio non riesce a diventare la realtà?
Comincia la ricerca di un linguaggio che possa raccontare ciò che siamo. Fioriscono parole e desinenze con cui il ‘politicamente corretto’ cerca di correggere l’imperfezione che genera esclusione di pezzi di Noi e quindi del reale.
Allora è così: quando il linguaggio comprenderà la realtà, Marlena tornerà a casa?
I tanti pezzi che ci compiono come persone, rendendoci ‘perfetti’, il nostro linguaggio non riesce proprio a indicarli senza paradossi e contraddizioni.
Cantano i Maneskin “Voglio arrivare fin dove l’occhio umano si interrompe”
Non parlo del ‘possiamo essere’ che il virtuale ci regala, ma della molteplicità tutta scritta sui e nei nostri Corpi. Ci hanno insegnato che siamo individui a cui la nostra identità è legata e da cui dipende, ma l’entità individuale non ce la fa a contenere il flusso che ci attraversa in ogni istante, nutrito dai nostri sensi e dalla nostra memoria corporea. Allora tutto quello che non è contenuto nel linguaggio, diventa desiderio e nostalgia, se non addirittura rimosso e demonizzato e fatto dimorare nel calderone delle nostre paure come minaccia alla nostra ‘perfezione’.
Il nostro spazio, oggi, è così pieno di stimoli, di segni e di informazioni da sembrare sempre gravido della ‘grande soluzione’: il ritorno di Marlena a casa, l’azzeramento della distanza tra Noi e le parole che ci raccontano.
Una foglia è la foglia, non tutte le foglie, ma proprio ‘questa’ foglia. Noi vorremmo che il linguaggio ci riconoscesse non come categoria ma come entità pulsanti dell’esserci. Altrimenti
“…ho paura di sparire”
Eppure Lei non torna a casa.
Marlena è Dea che si palesa in ciò che stona, disturba la simmetria, spezza la linearità ed è politicamente, indecentemente scorretta perché imbarazzante per la maggioranza nonché per i nostri ego abituati al narcisismo che la società promulga a piene mani.
Marlena è corpo e voce di ciò che di Noi il linguaggio non riesce a contenere.
Se Marlena tornasse a casa, varcata la soglia sparirebbe, sguscerebbe via.
E così, quel Refrain, si attacca ai nostri sensi, ed è il senso di mancanza e di un vuoto, eco di un’occasione perduta e di un destino irraggiungibile.
Credo che non sia il linguaggio a poter colmare quel vuoto, lo può solo lo sguardo dell’Altro,
non stiamo in una rete fitta di relazione, noi SIAMO quella rete e in questa rete ci sono due fili:
uno ti porta a casa, dove tutto ti rispecchia, e l’altro ti porta fuori a con-fonderti con l’Altro
“Nel dubbio che fosse morte oppure rinascita”
La morte forse è quella dell’Io, che diventa ‘NoiAltri’ frutto delle nostre relazioni e della storia molteplice che siamo.
Dedicato a chi dimentica di alzar lo sguardo oltre il naso e sceglie di non guardare l’Altro per la paura di perdersi nella meravigliosa imperfezione che siamo.
link immagine
<a href=”https://it.freepik.com/vettori/sfondo”>Sfondo vettore creata da freepik – it.freepik.com</a>
Così, già per come è scritta, questa frase riassume la pochezza che spesso riesce a risiedere e, purtroppo, a manifestarsi in alcune persone e, soprattutto, attraverso certi canali mediatici con un potere di ritorno ancora troppo grande.
Questa, che tanti chiamano una semplice opinione, purtroppo deve interessarci.
Questa, che per alcuni rimane un’idea, un libero sentire e basta, è in realtà una condanna.
Sale sul patibolo, ogni volta in cui si sentono/si leggono parole simili, la libertà delle donne di decidere del proprio corpo. Si pone, come fosse un giro di perle, il cappio al collo ad un’intera categoria per il semplice piacere di parlare, di dire la propria.
“Difendo la libertà di pensiero”,
la replica di Signorini alle critiche di questi giorni.
Ma qui, “caro” Alfonso, non si tratta di libertà di pensiero, né di libertà di espressione (come invece ha spiegato il conduttore nelle dichiarazioni successive a quella fatta in prima serata durante il GF VIP),
e questo per il semplice fatto che non può esserci alcuna libertà in una dichiarazione che vuole negarne un’altra. Questo mai.
La realtà è che, in un momento storico come il nostro, in cui proprio in questi giorni si vede negata la disponibilità del proprio corpo alle donne polacche, alle donne americane, alle donne e basta, dichiarazioni simili non sono semplicemente da condannare, ma sono da riconoscere per ciò che sono: sintomi di un tempo malato, infetto.
Una società nella quale, ad oggi, non è ancora garantita la possibilità di abortire e di farlo in sicurezza, nel rispetto della decisione (sofferta o meno) di una persona, è una società che vuole arginare la determinazione di sé delle donne, che vuole comprimere la sfera di diritto e di salute, fino ad assoggettarla alla propria “moralità”, fino a farla scomparire.
Non serve cercare nel mondo esempi di questa dittatura sanitaria (stavolta effettiva e non di matrice complottista) quando basta guardare dentro casa propria: in Italia gli obiettori di coscienza negli ospedali pubblici sono l’82,8% e questi sono dati diretti dell’ultima relazione del ministero della salute in riferimento all’attuazione della Legge 194/78
(relazione ministeriale di attuazione della legge 194/78 tutela sociale e interruzione volontaria di gravidanza dati 2019 e preliminari 2020).
Questo dato fotografa un’oppressione, coglie l’immagine di tutti i dolori propri delle donne non assistite, ferite e umiliate (nella migliore delle ipotesi) da personale medico e sanitario pubblico.
Un aborto negato è un aborto che diventa clandestino, è una pratica e una sofferenza che
va a consumarsi in ambulatori non autorizzati, nelle case delle stesse “vittime”, spesso attraverso mezzi di fortuna.
Ogni aborto negato è una donna che rischia la vita. E questo ancora non basta.
Questo dato, tra l’altro, è riassunto nelle proposte legislative che vediamo proposte ed accettate nel mondo (basta infatti dare uno sguardo alla situazione attuale della Polonia, del Texas), nelle parole dei politici che vogliono mettere le mani sui corpi delle donne, nelle dichiarazioni di un presentatore che si nasconde dietro la libera espressione.
“Noi contrari all’aborto in ogni sua forma, compreso quello dei cani.”
Queste sono le esatte parole pronunciate dal conduttore nella puntata andata in onda lo scorso 15 novembre sulla rete mediaset e, con molta probabilità, risuonate all’interno di tante case italiane e
arrivate alle orecchie di molte, moltissime persone.
Far passare questo tipo di messaggio come normale, in prima serata o in ultima,
alimenta un substrato di controllo e violenza che serpeggia e, silente, si spande tra una ripresa trash e un applauso, tra finti drammi orchestrati in uno studio televisivo e dichiarazioni aberranti.
Alimenta, questo messaggio, anche la paura, la vergogna.
Accresce lo stigma dell’aborto.
Per questo anche la dichiarazione di Signorini deve interessarci.
Per questo, poi, dobbiamo fare in modo che su quel patibolo inizino a salirci gli aguzzini, gli oppressori benpensanti e non le donne che, liberamente ed in piena coscienza, dispongono dei propri corpi.
Signorini è contro l’aborto e noi, liberǝ nel pensiero e nell’espressione, siamo contro di lui.
Giovanna Conte
per altro sul tema libero e tutelato
Sin da adolescenti ci troviamo costrette ad abitare il paradosso dell’essere fisicamente appetibili, depilate, truccate, ben vestite, ma senza dare nell’occhio. Il nocciolo della cultura dello stupro, in cui siamo tuttǝ imbevutǝ come biscottini nel thè, è che la visibilità, se donna, è sinonimo di pericolo.
Il paradosso consiste in questo semplice punto: barattare la propria vita per poter essere viste, impiegando tutte le energie per apparire al meglio e condannarsi eternamente a fare l’equilibrista tra la possibilità di esser viste e l’essere sopra le righe. Assorbiamo la cancerogena cultura dello stupro che ci reifica tramite l’istituzione della dittatura dello sguardo dell’uomo sulla nostra immagine: in quest’inferno guardarsi allo specchio significa essere espropriate dalla possibilità di vedersi senza innestare l’occhio maschile.
Un uomo bianco abile ed eterosessuale, invece, basta da sé per ottenere visibilità dinnanzi al patriarcato neoliberista. Se noi, già molto prima dell’età del consenso, ci troviamo a voler sembrare più carine per piacere ai coetanei dell’altro sesso, i maschi non si curano per nulla di tutto ciò. Se a loro è da subito concessa la vita immediata, noi siamo condannate all’inferno dell’eterna mediatezza: loro è l’azione, nostro è il linguaggio.
Nell’immonda ignoranza alla Pio e Amedeo in cui si è immersǝ, ci si dimentica, però, che la lingua ha innanzitutto un potere creativo e trasformativo: nello stesso testo biblico la parola divina crea. Checché ne dicano i due comici, che di Bibbia e John Austin non sanno ovviamente nulla, la parola crea la realtà. Le parole fanno le cose.
Coerentemente a questo tipo di visione che depotenzia il linguaggio rendendolo flatus vocis, il contenuto del discorrere della donna è ridotto a chiacchiera e/o lamentela. Il nucleo della battaglia femminista viene così percepito come lamentosa manifestazione di scontentezza dinnanzi alla già avvenuta concessione di diritti dall’alto.
Il mondo maschile sembra comportarsi, insieme a quello femminile, come il grande imprenditore che, rivolto allǝ stagista, dice: “Ti sto dando il privilegio di lavorare e di formarti presso la mia azienda, quindi devi ringraziare, tacere e non chiedere nulla al di là del rimborso spese”. Nella cultura fallocentrica lo spazio può infatti esser acquisito da una donna solo su sua richiesta in carta da bollo e con parole educate, casomai risulti una poco di buono sguaiata da non sposare.
Ricordo con disgustata tenerezza i miei coetanei a sedici anni che, imbevuti di questo modello troglodita di pseudocultura, distinguevano le brave ragazze dalle puttane. Le prime erano le ritrose, le timide che a stento avevano dato il primo bacio; le seconde quelle che avevano osato avventurarsi su più bocche o, addirittura, su genitali. La minima consapevolezza del doppio standard risultava essere non pervenuta: lo stesso comportamento, applicato a un ragazzo, diveniva oggetto di ammirazione. In un meccanismo canino di stimolo-risposta pavloviano, i piccoli funzionari del patriarcato, dinnanzi al medesimo atto, gli davano l’assenso se compiuto da un uomo e lo negavano, valutandolo come riprovevole, se effettuato da una donna.
Il fatto che lo stupro sia quasi sempre letto come occasione per colpevolizzare la vittima di sesso femminile risulta essere la logica conseguenza di questa serie di presupposti perpetuati in modo sistemico dalla struttura del contesto socio-culturale di base. La sottrazione di agency al discorso della donna, per cui la sua denuncia di violenza risulta poco credibile e il giudizio moralistico sulla sua vita sessuale sono i due elementi che si trovano a interagire come una mentos in una coca-cola quando si tratta di esaminare i casi di stupro.
Nelle menti illuminate di conduttorǝ di talk show televisivi e giornalistǝ che analizzano stupri scatta un meccanismo pavloviano, avente la stessa matrice di quello sopra citato. Così come già dall’adolescenza, per un riflesso condizionato assorbito dal contesto, si presume che l’uomo sia predatore e la donna preda remissiva, moralmente deprecabile se vien meno al suo ruolo, allo stesso modo si crede che, nel caso in cui l’uomo diventi un predatore violento, la ragione risieda nella provocazione della donna, responsabile di aver superato il castrante recinto costruitole attorno.
Se le sopracitate menti di luminari, solitamente, nell’esame dei fatti di cronaca nera fanno il processo al presunto colpevole prima ancora che sia la giustizia a dichiararlo tale, nell’analisi degli stupri indagano invece morbosamente sulla distribuzione delle colpe, mettendo in atto la strategia del dubbio iperbolico, infarcito dall’aleggiante ma esplicita retorica del “se l’è cercata”.
Il processo di Victim Blaming è ben analizzato dallo psicologo canadese Albert Bandura (1977) che individua un forte limite cognitivo nell’impossibilità di percepire il carattere inumano di un atto nella sua gratuità. Un’azione inumana è, in altri termini, recepita come possibile solo se è razionalmente giustificabile tramite l’attribuzione di colpa e/o la disumanizzazione della vittima. Si crea così una sorta di giustificazione morale in cui si minimizza il danno causato dal colpevole, spostando la responsabilità sulla vittima.
Il processo di disimpegno morale risulta, quindi, essere triplice: il primo passo consiste nella creazione di etichette eufemistiche dai toni romantico-fiabeschi atte a giustificare l’abuser. Questa è la ragione per cui chi violenta durante una relazione, o dopo la fine della stessa, è dipinto come “il gigante buono troppo innamorato che, alle volte, perde le staffe fino a un punto di non ritorno”.
Nei casi, invece, di stupro di una sconosciuta, si fa leva goliardicamente sull’incontenibile appetito sessuale dell’uomo che abusa, come se fosse una macchina bestiale di istinti irrefrenabili.
È infatti troppo comodo pensare che sia l’istinto animale a muovere e non la consapevolezza del proprio potere in quanto maschio eterosessuale che può disporre delle sottoposte come crede: lo stupro non è nulla al di fuori di un atto di violenza volto a riconfermare la propria egemonia. In guerra, d’altronde, qual è la prima cosa che un popolo che invade il territorio dell’altro fa, oltre a saccheggiare? Stupra le sue femmine.
Il giornalismo italiano, però, sa che è più mentalmente economico lo status quo. Dunque sceglie, ogni giorno, di coprirsi gli occhi e tapparsi le orecchie dinnanzi alla divisione del mondo in oppressori e oppressǝ, optando per quel viscido movimento che si dà nel labile confine che intercorre tra il click baiting e una sudata testosteronica partita di calcetto.
Il secondo step individuato da Bandura risiede nella distorsione delle conseguenze: il trauma è demonizzato e coperto persino di un’eventuale nota di ridicolo. Il terzo passaggio consiste nel rivestire di colpa e vergogna la vittima, analizzando fattori del tutto irrilevanti quali il suo abbigliamento e il luogo in cui si trovava al momento della violenza.
Risulta cioè essere più economico il processo volto a ragionare con il senno di poi, ponendosi nei panni della vittima prima dell’aggressione. Chi ascolta, senza che nessuno glielo abbia chiesto, assume la prospettiva divina del sapere già cosa accadrà: diventa così un piccolo architetto dell’evitamento delle brutte azioni altrui. Non si rende così conto né della totale gratuità e imponderabilità delle stesse né dello star utilizzando una strategia retorica volta a redarguire la vittima, strizzando l’occhio al carnefice.
Scattano così da parte sua le frasi del tipo: “se fossi stata in te però, a quell’ora, mi sarei fatta accompagnare/ avrei evitato quella zona/ non avrei indossato quegli indumenti provocanti/avrei tenuto le chiavi di casa in mano per difendermi”. Mettendo un piede nella scarpa della sfera intenzionale della vittima e un altro in quella del colpevole, il giudice esterno dice alla prima cosa avrebbe dovuto fare, sapendo cosa il secondo farà.
Grazie alla magnetoencefalografia e agli elettrodi intracranici si è potuto osservare che le attività di comprensione degli eventi sono meno elettriche rispetto alla rapidità data da un’azione finalizzata al trovare una soluzione veloce. In altri termini, nell’analisi dei fatti il nostro cervello non è naturalmente portato alla comprensione di dinamiche più complesse, ma agisce seguendo la via del risparmio di energie cognitive.
Nelle parole di Bruno Vespa, pronunciate durante un’intervista a Lucia Panigalli, sotto scorta dopo i vari tentativi di uccisione da parte dell’ex, sono riassunti questi tre processi di “allontanamento del reale” messi in atto dal cervello umano per non ammettere la maggiore complessità di una data situazione. Vespa, con un fare sornione, ebbe l’agghiacciante coraggio di dire: “Se avesse voluto ucciderla l’avrebbe uccisa. Lei è fortunata. Lui è innocente. E comunque 18 mesi sono un bel flirtino. Ma era così follemente innamorato di lei da non volerla dividere se non con la morte? Finché morte non ci separi”.
Quest’abominio linguistico non è in sé il problema, ma ne è la cartina tornasole: le parole aberranti dette dal Vespa o dalla Palombelli di turno non sono casi isolati dinanzi ai quali indignarsi, ma costituiscono l’occasione per affacciarci dalla finestra a vedere la limpida chiarezza di un sistema patriarcale neoliberista che è il cancro di sé stesso.
A noi spetta assumere quella che il sociologo David Miller chiama remedial responsibility: abbiamo cioè il dovere di porre rimedio alle falle della struttura esistente. Possiamo emanciparci dallo stato di natura proprio degli automatismi cerebrali che scattano nell’analisi dei fatti tramite una presa di consapevolezza etica in riferimento a questi temi, senza girare l’orecchio dall’altra parte perché, in quanto maschi bianchi etero, tutto ciò non ci tocca.
L’atteggiamento lassista di ignava mancata presa di posizione è, infatti, moralmente deprecabile. La responsabilità è in questo caso ascrivibile alla “like-mindedness”: l’appartenere a una comunità che condivide una pratica condannabile è, di per sé, sufficiente perché tuttǝ siano responsabili. In altri termini incarniamo tuttǝ il patriarcato neoliberista e la conseguente violenza di genere.
Cookie | Durata | Descrizione |
---|---|---|
cookielawinfo-checkbox-analytics | 11 months | This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Analytics". |
cookielawinfo-checkbox-functional | 11 months | The cookie is set by GDPR cookie consent to record the user consent for the cookies in the category "Functional". |
cookielawinfo-checkbox-necessary | 11 months | This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookies is used to store the user consent for the cookies in the category "Necessary". |
cookielawinfo-checkbox-others | 11 months | This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Other. |
cookielawinfo-checkbox-performance | 11 months | This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Performance". |
viewed_cookie_policy | 11 months | The cookie is set by the GDPR Cookie Consent plugin and is used to store whether or not user has consented to the use of cookies. It does not store any personal data. |