L’omoaffettività delle persone transgender

Il 18 maggio 2017, presso la sede de “Il Guado” (via Soperga, 36) a Milano, ha avuto luogo il primo di una serie d’incontri mensili dedicati dal Circolo Culturale TBGL “Harvey Milk” a “Transgenerità: cultura e autocoscienza”. Questo inizio s’intitolava: “L’omoaffettività delle persone transgender”.

Questo articolo era stato pubblicato sul Milk Blog. Vista la chiusura del circolo, abbiamo deciso di trasferire qui l’articolo.

L’omoaffettività delle persone transgender

            Il senso dell’evento è stato introdotto da Monica Romano. Ha spiegato come spesso siano altri a parlare delle persone transgender dall’esterno: da qui, la necessità di raccontarsi in prima persona, per palesare ciò che si vive, senza filtri accademici o pregiudiziali. Questo è ciò che s’intende per autocoscienza. Monica è approdata all’argomento della serata, citando la famosa Sylvia Rivera, protagonista della rivolta di Stonewall (New York, 1969). Sylvia era trans-lesbica e lo era “fuori dai percorsi canonici”, dato che rifiutò la medicalizzazione.

Nathan, presidente del Milk, e autore di Progetto GenderQueer, ha invitato Monica a dare alcune delucidazioni ai “volti nuovi” presenti. La Romano, pertanto, ha fornito cenni storici. Ha menzionato la legge 164/1982, che regola la riattribuzione del sesso. Era all’avanguardia per l’epoca, ma insufficiente, rispetto alle istanze delle persone con un’identità di genere fluida, un orientamento sessuale non etero o che non vogliono/possono accedere alla medicalizzazione. Secondo la suddetta legge, infatti, la riattribuzione del sesso e del genere anagrafico deve essere autorizzata da un tribunale, che può anche ordinare una consulenza psicologica. Sempre la 164 prevede lo scioglimento automatico del matrimonio, in caso di transizione, a prescindere dalla volontà dei coniugi.

Monica ha spiegato anche la differenza tra i termini “transessuale” “transgender”, dal punto di vista politico. Il primo è stato imposto da fuori; il secondo si è affermato all’interno del mondo T, per autodesignarsi. È importante anche ricordare, come lei ha fatto, che non tutti i percorsi di transizione seguono il binario “maschile-femminile”. Una donna transgender può comunque mantenere un look “mascolino”, per esempio. La Romano ha precisato che la conversazione non sarebbe stata “compiacente”: essa avrebbe dovuto esprimere tutto ciò che si pensava, senza paura di turbare o scandalizzare. Dopo Monica, ha preso la parola Laura Caruso. Quest’ultima ha spiegato le parole della Romano circa la “conversazione non compiacente”: durante gli incontri del Gruppo AMA – Identità di Genere, sorgevano spesso istanze di tipo politico, non adatte però a quel contesto (di sostegno psicologico). Da qui, la necessità di incontri diversi, riguardanti l’autocoscienza. La Caruso ha poi esposto il proprio punto di vista sulle “etichette”, ovvero sulla terminologia assai variata che caratterizza il mondo LGBT e che può portare a confusione. Oltre a questo, è un dato di fatto che le definizioni vadano strette anche ai diretti interessati. Laura aveva menzionato il caso di una persona etero di sua conoscenza, appassionata di battaglie LGBT, ma colta alla sprovvista davanti al termine “bifobia”: la tendenza a considerare i bisessuali dei “confusi” o “omosessuali che non si accettano” («Perché abbiamo tutti la presunzione di sapere chi siano gli altri»). Si torna dunque al problema iniziale: quello delle persone transgender troppo spesso oggetto di narrazione, anziché soggetto. Ciò le espone a questo tipo di presunzione.

monica romano

Monica Romano ha raccontato del proprio vivere al femminile da vent’anni e delle proprie storie d’amore a lungo termine, con uomini e con donne. Ciò ha portato lei (come altre persone T) a doversi “giustificare” continuamente: «Se ti piacciono le donne, allora non sei davvero donna»; «Lei sta con te perché, sotto sotto, ti vede uomo»; (da parte di donne lesbiche) «Ma ti sei messa con quella lì? Prima, era un uomo!» Il discorso di Monica si è poi spostato sulle aspettative “da film porno” che certi uomini hanno davanti alle coppie saffiche e sugli inconvenienti dell’essere lesbica (a prescindere dalla “T”).

È arrivata, a questo punto, la “domanda delle domande”, introdotta da Laura: «Se ti piacciono le donne… perché hai scelto di transizionare?» La Romano ha raccontato d’aver dato spiegazioni diverse volte, ma che esse non convincevano. Ne ha concluso che, secondo la società, chiunque si leghi a una persona T “non va bene”. Se il partner è un uomo: «Ma, allora, sei gay!» Se è una donna: «Ma lei, prima, era un uomo!» Da tutto questo, si evince come il binarismo non sia solo un problema teorico-filosofico, ma assai pratico.

Monica Romano si è definita pansessuale: ovvero, la sua capacità d’innamorarsi non è limitata dalla forma dei genitali o dal genere dell’altr*. Riprendendo il discorso, Laura ha aggiunto che avere un orientamento sessuale monodirezionale può essere certamente “limitante”, ma che bisogna anche fare i conti con le proprie pulsioni. L’orientamento non è una scelta e non tutti sono pansessuali. La Caruso si definisce semplicemente “lesbica”; ma ha dichiarato anche che ogni orientamento è legittimo. La riflessione ha incluso anche il fatto che sia difficile definire il “grado di mascolinità/femminilità” in base ai genitali («Mio zio con la vagina non è più femminile di me!»).

Laura si è comunque posta spesso un interrogativo tipico delle donne trans-lesbiche in fase di auto-indagine: «Se mi sento donna, perché mi piacciono le donne?» Questa domanda le ha causato molti conflitti interiori.

A questo punto, è stata introdotta anche la distinzione fra persone T “primarie” “secondarie”, in base alla precocità dell’autoconsapevolezza. La Caruso, pur avendo transizionato tardi, si definisce “primaria”, perché fin da bambina si rendeva conto della propria femminilità. Purtuttavia, ha trascorso lungo tempo in una condizione socialmente “al top”: quella di “maschio bianco eterosessuale con famiglia e indipendenza economica”. Ciò ha portato i presenti a osservare quanti tipi di discriminazione esistano ancora, a prescindere dalla “T”. Spesso, gli uomini evitano le persone transgender, per paura di essere considerati gay. Le donne si pongono più raramente questo problema. È il maschio a rischiare di perdere uno “status sociale perfetto”.

Allora, perché si transiziona? Laura ne ha parlato come di “necessità”: «Non è coraggio, è disperazione. Si arriva a un punto in cui ci si dice: “Piuttosto che invecchiare da uomo, preferisco morire”». In quello stato, non si ha più alcunché da perdere.

La Caruso ha citato alcune frasi che si è sorbita da parte di rinomati psicologi: «Quindi, lei vuol rifarsi una vita con un uomo?» (Come si è detto, lei è lesbica); «Ma, a casa, chi è che cambia le lampadine?»; «Allora, in cosa si esprime la sua femminilità?» A questa, Laura rispose con un sorriso beffardo, indicando se stessa. Esperienze come queste indicano quanto sia aberrante pretendere di capire le persone studiando argomenti sui libri (e decidere del loro destino in base a questi).

A quel punto, è stata la volta di Nathan. Le sue esperienze da liceale hanno visto professori bullizzare anche persone cisgender, in base al loro look («Questi capelli sono troppo corti!», detto a ragazze). Per una persona T che non vive in un contesto consapevole delle minoranze sessuali, scoprirsi e capirsi è difficile. Nathan viveva perciò come una femmina etero. Venne a conoscenza del mondo transgender grazie a serie televisive americane. Seppe dell’esistenza del trans-lesbismo prima ancora che di quella degli FtM.

La sua prima relazione (con un ragazzo etero) fu tutto sommato felice, perché il partner aveva in qualche modo intuito l’essenza di Nathan. Col tempo, anche le sue fonti di informazione sul mondo T aumentarono. Non trovò però molti esempi di FtM gay; Nathan è stato un pioniere di se stesso, in questo senso. I suoi primi contatti su GayRomeo furono molto prudenti, dato che lui non si riconosceva nello stereotipo di maschio qui proposto. Dichiararsi “flessibile” lo portava a esser visto come “lesbica”. Quando aveva relazioni con uomini gay, questi venivano spesso classificati come “bisessuali”, pur non essendolo. Anche la sua famiglia aveva difficoltà ad accettare il suo genere e orientamento, perché lo aveva sempre visto come una “ragazza etero”.

A questo punto, è stata introdotta la questione del “passing”: la capacità di farsi riconoscere come appartenente al genere d’elezione. Il passing è stato difficile per Nathan, quando si trovava in coppia gay (veniva sovente percepito come “la donna”). Ciò non succedeva, però, quando era in compagnia della madre, o in altri contesti.

Per comprendere situazioni sentimentali come quelle di Nathan, occorrerebbe dunque disgiungere la mascolinità dall’eterosessualità. Essere gay non significa non essere uomini.

È stato curioso osservare come un uomo (spesso) rifiuti un partner FtM per una questione di genitali, mentre le donne disdegnano prevalentemente i suoi caratteri sessuali secondari (assenza di barba e peluria, ecc.). Anche fare coming-out sul posto di lavoro non è idilliaco, non foss’altro che per via di quel che recitano i documenti. Una possibile soluzione sarebbe l’introduzione del cambio di nome senza medicalizzazione. Ora che è stata approvata la legge Cirinnà sulle unioni civili, nessuno potrebbe più paventare che “tutti mutino genere anagrafico per accedere al matrimonio con persone dello stesso sesso”.

 

Testo a cura di Erica Eric Gazzoldi, basato sul verbale di Andrea Sabrina Bianchetti.

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