Nell’ultimo decennio, il termine teoria gender è entrato nel dibattito pubblico con toni spesso allarmistici e distorti.
Ma cosa significa davvero? Esiste una “teoria del gender”? Da dove nasce e cosa studia? Fare chiarezza è fondamentale, soprattutto quando si parla di diritti, identità e inclusione.
Cos’è la teoria del gender?
Prima di andare avanti è bene chiarire un concetto fondamentale: la teoria del gender non esiste.
Quella che viene comunemente chiamata in modo dispregiativo “ideologia gender” è in realtà un insieme di studi accademici, sviluppatisi a partire dalla seconda metà del Novecento, che analizzano criticamente il modo in cui la società costruisce e impone i ruoli di genere.
Il termine genere (in inglese gender) non va confuso con sesso biologico, mentre il sesso si riferisce alle caratteristiche fisiche e genetiche (maschio, femmina, intersessuale), il genere riguarda l’identità personale e i ruoli sociali attribuiti culturalmente al maschile e al femminile. Gli studi di genere analizzano come questi ruoli siano costruiti storicamente, culturalmente e politicamente, e non semplicemente “naturali” o legati alla biologia.
Quando nasce la teoria del gender?
Per capire come nasce la teoria del gender dobbiamo andare a ritroso nel tempo, quando iniziano i primi studi di genere.
Le origini: la distinzione tra sesso e genere
Le prime distinzioni concettuali tra sesso e genere cominciano negli anni ‘50 e ‘60, quando il medico e sessuologo John Money, nel contesto degli studi dell’intersessualità, introdusse il termine “gender role” (ruolo di genere) per descrivere il modo in cui le persone interiorizzano e interpretano i comportamenti attesi dalla società sulla base del proprio sesso assegnato alla nascita. Questa distinzione segnò un passaggio fondamentale: per la prima volta si ipotizzava che la mascolinità e femminilità non fossero semplici espressioni biologiche, ma esiti di processi educativi, psicologici e sociali.
Il contributo del femminismo
Negli anni ‘70, i movimenti femministi radicali e di seconda ondata cominciarono a sviluppare in modo sistematico una critica al determinismo biologico, cioè all’idea che i ruoli sociali di uomini e donne fossero “naturali”. Pensatrici come Simone de Beauvoir, già nel 1949, scrivevano: “Donna non si nasce, lo si diventa”, anticipando un concetto chiave degli studi di genere. Le femministe evidenziarono come le disuguaglianze di genere fossero il frutto di costruzioni culturali, ,e non differente innate, gettando le basi per un’analisi politica di genere come strumento di potere e controllo.
Judith Butler e la performatività del genere
Un momento di svolta avviene negli anni ‘90 , quando la filosofa Judith Butler, con il suo libro Gender Trouble (1990), rivoluziona il concetto di genere, proponendolo non come qualcosa che si “è”, ma come qualcosa che si fa.
Secondo Butler, il genere è una performance: un insieme di atti ripetuti nel tempo, guidati dalle norme sociali, che producono l’illusione di un’identità stabile. Questo approccio ha avuto un impatto profondo sulla teoria queer, decostruendo la binarietà uomo-donna e aprendo spazio alla molteplicità delle identità e delle espressioni di genere.
Studi di genere e diritti LGBT+
Nel tempo, gli studi di genere si sono intrecciati sempre di più con le battaglie per i diritti delle persone LGBT+.
Decostruire il genere come categoria fissa ha permesso di dare visibilità alle identità trans, non binarie, genderfluid e a tutte quelle esperienze che non trovano spazio nei modelli tradizionali. La teoria queer, in particolare, ha contribuito a denunciare l’eteronormatività, cioè l’assunzione secondo cui l’unica sessualità “normale” sarebbe quella eterosessuale, e ha sostenuto il diritto all’autodeterminazione di genere e all’espressione libera delle identità.
Perché è importante parlarne?
Gli studi di genere non impongono identità o comportamenti, ma mettono in discussione le norme rigide che limitano la libertà individuale. Aiutano a comprendere le esperienze delle persone transgender, non binarie, genderqueer e di ttute le soggettività che non rientrano nei modelli binari tradizionali.
Forniscono strumenti per combattere discriminazioni, violenze e disuguaglianze che colpiscono chi non si conforma alle aspettative di genere dominanti.
Contrariamente alla retorica che parla di “pericoli” o “indottrinamento”, gli studi di genere promuovono il rispetto della diversità, l’autodeterminazione e i diritti umani. Sono oggi parte integrante dei programmi universitari in molti paesi, riconosciuti come fondamentali per la comprensione delle dinamiche sociali, culturali e politiche contemporanee.
Parlare di “teoria del gender” con consapevolezza significa riconoscere un percorso di ricerca serio, articolato e plurale che ha dato voce a chi per secoli è stato emarginato. Non si tratta di un’ideologia da temere, ma di una lente di lettura della realtà che ci aiuta a costruire una società più giusta, libera e inclusiva per tutte le identità.
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Ylenia Indiano