Il 12 ottobre 2017, ha avuto luogo il primo incontro di un workshop targato Milk: “Il corpo delle trans”. Ad occuparsene, sono state Laura Caruso e Monica Romano. Secondo una dichiarazione di quest’ultima, al workshop ha preso parte anche Antonia Monopoli, nota attivista transgender italiana. Abbiamo scambiato qualche parola con le due organizzatrici e abbiamo deciso che, nonostante quest’intervista era nata per il sito del Milk, valeva la pena che non si perdesse, e l’abbiamo riproposta in Enbypost.
Il titolo del vostro workshop riecheggia abbastanza chiaramente il documentario Il corpo delle donne di Lorella Zanardo. O è solo una mia impressione? In che senso avete voluto richiamarvi all’opera della Zanardo?
Laura Caruso: Il titolo lo ha scelto Monica, ma credo che un legame con il lavoro di Zanardo ci sia. Tra l’altro, non troppo tempo fa, Zanardo ha pubblicato sulla sua pagina Facebook un post sul doppio stupro di Rimini, le cui vittime sono state una donna cisgender ed una donna transgender. In quel post pubblico, Monica è intervenuta, poiché Zanardo ha completamente ignorato la donna transgender, e la replica è stata qualcosa come: “Sì, vabbè, ma non andiamo fuori tema”.
Per me, è stata una grande delusione: discutere oggi ponendosi il dubbio se una donna transgender sia una donna lo trovo segno di involuzione.
Tuttavia, ho molto amato il lavoro di Zanardo, e mi è piaciuto il titolo scelto da Monica per il nostro workshop.
Monica Romano: Sì: ho scelto questo titolo ispirata dal lavoro di Lorella Zanardo, attivista e scrittrice femminista, che ha denunciato e reso evidente la strumentalizzazione e mercificazione del corpo delle donne con un documentario che ha lasciato un segno nell’immaginario collettivo. Anche i corpi delle persone transgender sono spesso mercificati, oggettivizzati, travisati e – azzardo un termine forte – violentati. In primis, da un discorso generale che definisce i nostri corpi aprioristicamente “brutti”, grotteschi e caricaturali. Si pensi all’affermazione ricorrente di molte donne e ragazze: “Oggi, sembro un trans”. Una battuta che appare ironica, innocua e scherzosa, ma che in realtà cela e veicola una logica di svalutazione delle donne transgender e della nostra fisicità.
Com’è andato il primo incontro?
L.C.: È andato bene. È stato ristretto, ma molto intenso. Qualche mese fa, avevamo avviato un percorso con un incontro di autocoscienza sull’omoaffettività transgender, che era andato molto bene e aveva attratto molti partecipanti.
Questo abbiamo voluto dedicarlo solo alle donne transgender. Abbiamo pensato che ci fosse la necessità di uno spazio riservato. Non è separatismo politico, ma un momento di confronto tra simili che del loro corpo non possono parlarne quasi mai. Il nostro corpo è stato a lungo strumento per altri. Non credo ci sia bisogno di spiegare di più su questo punto, è questione tristemente nota.
M.R.: Molto bene, grazie anche all’importante e intelligente contributo di Laura Caruso. Molte le riflessioni emerse sui nostri corpi e sulla nostra sessualità, in uno spazio discorsivo che finalmente ci ha permesso di parlare di noi senza censure e timori.
Cos’avete in mente per i prossimi?
L.C.: In realtà, già questa occasione avrebbe dovuto riguardare altro. A inizio stagione, noi del gruppo “Identità di genere” ci siamo incontrati, per discutere le iniziative. Avevamo già in mente la genitorialità trans, tema di cui certamente vorremo occuparci; ma Monica ed io abbiamo pensato che fosse più urgente un workshop come quello che abbiamo tenuto.
M.R.: Il progetto “Il corpo delle trans” avrà altri appuntamenti nei mesi a venire, con l’ambizione di diventare un laboratorio permanente del nostro discorso sui corpi e sulla sessualità.
Le polemiche dello scorso agosto ruotavano intorno al corpo e alla sua importanza nel vissuto personale. Vagina, utero, seni… Quanto è importante averli per corredo genetico, dal punto di vista dell’essere donna? E cosa vuol dire “essere donna”?
L.C.: Qui mi fai una domanda da cui potremmo non uscire vive, oppure parlarne per un paio di anni! Nella scorsa estate, sono state dette e scritte un sacco di cose, spesso a sproposito e spesso immaginando che il solo fatto di poter scrivere in pubblico legittimasse qualsiasi punto di vista.
Credevo che il punto di vista in base al quale “un uomo non è un pene e una donna non è una vagina” fosse ormai consolidato; ma mi sono resa conto che non è ancora così, neppure in ambienti che io immaginavo vicini a noi persone T. Mi riferisco a certe correnti di femminismo e gruppi di lesbiche.
Al momento, mi sono sentita ferita e, per un po’, ho immaginato che fosse utile parlarne. Ultimamente, mi sono convinta che continuare a dibattere con chi ritiene che io non sia una donna sia uno sciocco spreco di energie, che penso di dover più proficuamente impiegare per battaglie che sono già molto più avanti, tra le persone cosiddette “normali”, di quanto questi gruppuscoli possano farci credere. Ho pensato, insomma, di considerare queste marginali correnti alla stregua delle Sentinelle in Piedi o del Popolo della Famiglia.
Se io perdessi tempo a discutere teorie in base alle quali io non sarei una donna, brucerei tempo ed energie a scapito di un attivismo più sano, che si occupa delle persone T in condizioni di marginalità e di diffondere l’idea che oggi molte persone T sono in una posizione di integrazione sociale eccellente. Non ho remore a dire che si tratta certamente del mio caso. Ho voglia di far passare le persone dalla marginalità all’integrazione, non di battibeccare con persone che mi sono ostili per pregiudizio.
Perché dovrei perdere tempo sulle teorie che non mi riconoscono donna, quando io sono donna tutti i giorni nella pratica?
M.R.: Per quanto riguarda le polemiche dello scorso agosto, parto complimentandomi per il tuo ottimo articolo Se queste sono donne, e invito tutt* a leggerlo. Venendo alla tua domanda, mi viene da dire che si è donne socialmente. Io vivo come donna da ormai vent’anni (da quando avevo diciotto anni); come donna, vengo socializzata ogni giorno nel lavoro, nel tempo libero, nella vita famigliare e sentimentale. L’oppressione del genere femminile riguarda anche me e anch’io ne pago – purtroppo! – il prezzo: come le altre, fatico a rompere il famoso “soffitto di cristallo” nella vita professionale (mi occupo di amministrazione del personale in uno studio di consulenza del lavoro milanese); come le altre, devo stare attenta quando giro da sola la sera; come le altre, ho subito molestie (#metoo, citando la bella campagna lanciata dall’attrice Alyssa Milano, per dare visibilità al fenomeno sommerso e silenzioso delle molestie sessuali); come le altre, devo essere vigile persino nelle mie relazioni sentimentali, cercando e scegliendo partner che sappiano rispettare il mio essere donna, senza equivocarlo con l’essere subalterna nelle dinamiche di coppia. Tutto questo me lo vivo pur non avendo un utero e un corredo genetico “XX”, e non essendo nata con una vagina. Anche prima della mia transizione, la vita non era certo rose e fiori. La mia femminilità era visibile e percepita anche prima del mio percorso e questo mi ha esposto a bullismo, marginalizzazione e violenza. Perché il femminile, in un mondo maschilista, ti penalizza sempre, “XX” o “XY” che tu sia. È triste che io debba affermare il mio essere una donna dovendo descrivere minuziosamente l’oppressione che subisco e dovendo invece sorvolare sulla gioia (magari a questa potremo dedicare un’intervista a parte 😉 ) che l’essere una donna mi regala ogni giorno della mia vita, non è vero? Non lo faccio certo perché amo “fare la vittima” – non è certo nel mio stile e chi mi conosce lo sa bene – ma, in questo momento, questo tipo di discorso è più che mai necessario, a causa degli attacchi che alcune sedicenti femministe (ma che col femminismo non hanno nulla a che spartire) in Italia e nel mondo – ribattezzate “trans – escludenti”, o “TERF”, ma guai a dirglielo! – stanno scagliando contro le donne transgender.
Essere o apparire… L’anima e il corpo… Dove sta la nostra essenza di persone? Se e quanto ha senso pensare l’essere umano in questo modo dualistico?
L.C.: Io sono esattamente la persona che sono ed ero anche prima; le mie evoluzioni intime non sono legate al mio corpo.
Il mio corpo è stato solo il potente strumento attraverso il quale ho potuto interrompere un disagio costante, che mi vedeva assolutamente sola nel riconoscere la mia identità di donna.
Io passo le mie giornate intorno a modelli matematici, e non sono culturalmente portata a indagare i temi dell’anima. Il corpo mi affascina molto di più. Nel mio caso, io posso dire che la mia condizione è legata al corpo. La mia anima – ammesso che esista – sta benissimo: era il mio corpo che non funzionava in sintonia con me. Volevo vederlo differente, cioè femminile, e questo implicava un lavoro sulla materia, non sullo spirito. Questo ha portato un sottoprodotto importantissimo: oltre a me, questo corpo lo vedono tutti quelli che mi stanno intorno; e, vedendolo, riconoscono, insieme a me, la mia molto elementare verità. È una verità di sole quattro parole: io sono una donna.
Il mio caso è semplice. Poi, ci sono quelli più complessi. I casi di chi non desidera intervenire sulla propria materia per veder riconosciuta la propria identità. È un’istanza che io sposo. Un mondo in cui non conta la parola della persona che ti dice chi è, ma conta solo quel che di quella persona vedi, è un mondo che ha ancora molta strada da fare.
Ci sono punti di contatto con la mia esperienza. Quando io parlavo di me e il mio aspetto non corrispondeva all’immagine attuale, venivo considerato un povero demente. È devastante.
M.R.: Per me, questa dualità ha senso. Io ho dovuto far sì che il mio corpo e la mia immagine esteriore mi somigliassero, per poter vivere dignitosamente e felicemente. E non m’importa nulla di chi storcerà il naso davanti a questa mia affermazione: non possono sapere cosa io ho provato, né conoscere le sofferenze che mi sono derivate da un corpo e da un genere assegnato alla nascita che non mi appartenevano. Storcano il naso finché pare loro: oggi, sono una donna che ha conquistato l’agibilità alla sua femminilità dopo tante battaglie, sono felice e questo nessuno potrà mai togliermelo.
Il workshop riguardava il modo in cui le donne transgender vivono i sentimenti in relazione al proprio corpo. Certo, è difficile fare confronti, ma… quali sono le prime differenze che si notano nel vissuto di una donna transgender, rispetto a quello di una cisgender, in fatto di amore? E i punti in comune?
L.C.: Mi spiace dover dire che a me sembrano esserci più differenze che punti in comune. Esiste una complessità che riguarda anche gli FtM. Ci sono mille remore e mille paure. Perché vuole stare con me? Che cosa lo attrae di me? C’è sempre il sospetto che, nella relazione, non venga riconosciuta in pieno la nostra identità. È un processo lungo, ci vuole molto tempo. E molta pazienza.
M.R.: Parliamo dei punti in comune – per una volta – che, con le donne cisgender, in realtà sono moltissimi, più di quanto si creda. A partire dal rapporto conflittuale con il corpo, o dalla relazione con partner sessualmente egocentrate/i ed egoiste/i (non solo uomini: fra questi, anche molte donne). Per un misterioso meccanismo psicologico (misterioso lo dico con ironia: torniamo in realtà al concetto di subalternità nella coppia), spesso le persone si aspettano che il partner transgender sia in qualche modo “tenuto/a” a gratificare sessualmente il suo partner mettendo da parte il proprio piacere.
Al workshop, avete parlato solo delle donne transgender “canoniche” (MTF medicalizzate)? O sono stati trattati anche esempi non binari?
L.C.: In realtà, al workshop, abbiamo parlato solo di noi. Eravamo poche e le nostre esperienze si riconducevano a quello che tu definisci un percorso “canonico”, in corso o interrotto per motivi medici, o ancora da intraprendere ma già previsto. Era un gruppo di donne molto omogeneo, da questo punto di vista.
Il Presidente ed io abbiamo preso un impegno, nei prossimi mesi: dedicare uno spazio di confronto sulle persone T non medicalizzate. Crediamo sia importante non restare nel chiuso delle condizioni più note, e che anzi si debba fare un salto verso ragionamenti che non legano necessariamente l’identità a quanto è visibile dei nostri corpi. Forse, viviamo nell’utopia; ma lo riteniamo importante e crediamo che le nostre parole e i nostri pensieri possano costituire un punto di partenza per la libertà di molte persone che, oggi, vengono considerate “squilibrate”, “confuse”, perché semplicemente non riconoscono la binarietà dei generi.
M.R.: Per il momento, io e Laura Caruso abbiamo deciso di dare un’impronta canonica, riservando l’accesso al gruppo alle sole donne MtF che vivono socialmente come donne e siano percepite come donne nella vita reale.
Intervista a cura di Erica “Eric” Gazzoldi