In molte conversazioni – online e offline – battute maschiliste, barzellette sulle femministe e frecciate al femminismo vengono spesso trattate come innocui momenti di “leggerezza”. Ma questa normalizzazione dell’ironia sessista contribuisce a radicare stereotipi, alimentare discriminazioni e sminuire rivendicazioni di parità. In questo articolo esamineremo il fenomeno delle barzellette maschiliste, delle battute contro le femministe e di come l’umorismo possa diventare un’arma contro l’uguaglianza.
Battute e barzellette maschiliste: come l’umorismo rafforza stereotipi di genere
Spesso presentate come “scherzi innocenti”, le battute maschiliste attingono a un serbatoio di luoghi comuni su come dovrebbero essere o comportarsi le donne: emotive, incapaci alla guida, interessate solo allo shopping o alla cura della casa. L’effetto? Una risata apparentemente inoffensiva che però normalizza e rinforza visioni sessiste della realtà.
L’umorismo ha un grande potere sociale: unisce, distende, ma anche educa. Quando viene usato per prendere di mira sistematicamente un gruppo – come nel caso delle donne – cessa di essere neutro. Ogni battuta che sminuisce, ridicolizza o riduce una donna a uno stereotipo è un mattoncino in più nel muro della discriminazione. Molti comici, talk show e perfino meme sui social si affidano a questo tipo di ironia per ottenere facile approvazione. Ma ridere insieme di un pregiudizio non lo rende meno tossico, anzi: ne abbassa le difese, lo rende digeribile, “normale”. E questo è esattamente il problema.
Battute sulle femministe e sul femminismo: quando l’ironia diventa esclusione ideologica
Ancora più insidiosa è l’ironia rivolta contro il femminismo e chi lo sostiene. Le femministe vengono dipinte come esagerate, noiose, arrabbiate con il mondo, oppure – paradossalmente – come donne che odiano gli uomini. Barzellette e battute su di loro non solo deridono il movimento, ma lo svuotano di significato.
In questo caso, l’umorismo diventa uno strumento politico di esclusione. La risata è usata per squalificare la legittimità delle rivendicazioni femministe, per renderle marginali, fastidiose o ridicole. Se ridicolizzo chi si batte per la parità, posso ignorare le sue richieste. È una strategia di delegittimazione camuffata da ironia.
Queste battute colpiscono anche chi si sta avvicinando al femminismo ma teme di essere associato a un’immagine caricaturale. Così, l’umorismo sessista non solo ferisce, ma isola e scoraggia. Una risata può chiudere più porte di quanto sembri.
Barzellette maschiliste: tradizione popolare e normalizzazione del sessismo
Le barzellette maschiliste hanno spesso l’alibi della “tradizione popolare”. “Ma si è sempre detto!”, “Lo diceva anche mio nonno!”, “È solo folclore!”: giustificazioni che nascondono la loro funzione più profonda, ossia quella di tramandare ruoli di genere rigidi e disparitari.
Molte di queste barzellette seguono schemi narrativi semplici: l’uomo scaltro o vittima di una donna troppo esigente, troppo stupida o troppo invadente. La donna, spesso ridotta a una figura accessoria o ridicola, diventa un personaggio stereotipato funzionale solo alla risata finale. Non è un caso se, in questo tipo di barzellette, la figura femminile è quasi sempre passiva o punita per la sua “anormalità”.
Queste narrazioni sedimentano nel linguaggio collettivo, rendendo il sessismo qualcosa di ordinario, parte del paesaggio. E quando il sessismo è visto come normale, le sue conseguenze – dalla disuguaglianza economica alla violenza simbolica – passano in secondo piano, come se fossero inevitabili.
Riconoscere il ruolo che anche l’umorismo “popolare” gioca nella cultura patriarcale è un passo importante verso un cambiamento reale. Non si tratta di censurare tutto, ma di scegliere cosa vogliamo continuare a tramandare. Perché anche una barzelletta può essere un atto politico.
Conclusione
L’ironia non è mai neutra, soprattutto quando prende di mira sempre gli stessi: donne, femministe, persone che non si adattano ai canoni imposti. E fidati, lo dico da lesbica maschile che ha imparato a ridere di sé, ma non contro sé stessa.
Sono cresciuta (come tutte) tra barzellette sulle mogli rompi, sulle donne al volante, sulle femministe pelose e incazzate (spoiler: pelose lo sono davvero, incazzata dipende dal giorno). A forza di sentirle, ti ci abitui. Ma poi ti svegli e ti chiedi: “Perché dovrei ridere se è sempre il mio genere, la mia identità, il mio corpo, il mio modo di amare, a fare da bersaglio?”
Il punto non è smettere di ridere. È iniziare a scegliere di cosa ridere. E soprattutto, con chi. Se una battuta divide, sminuisce o ti fa sentire fuori posto, non è ironia: è solo un altro modo per tenere certi equilibri comodi in piedi.
E allora sì, continuiamo pure a ridere. Ma facciamolo con chi ci rispetta, non con chi ci riduce a una punchline. Anche perché, detto tra noi, le vere femministe fanno battute molto più divertenti.
In definitiva, che si tratti di barzellette maschiliste o di battute sulle femministe, quello che serve non è censura, ma consapevolezza: l’umorismo può evolversi, proprio come la società.