Come declinare i sostantivi di professione: linee guida per un corretto uso della lingua italiana moderna

Premessa sui sostantivi di professione

Questo articolo non vuole sostituire alcun manuale di grammatica, per quelli vi basta andare in libreria e acquistarne uno, o in biblioteca e prenderlo in prestito. Piuttosto, vuole provare a dare una risposta da un punto di vista socio-culturale. Come si declinano correttamente i sostantivi di professione? Non avrete di certo difficoltà a indicare il femminile dei termini cassiere, maestro, e attore. Ma se doveste declinare il femminile di avvocato?

Avvocato, che domande!”, direbbero alcunə.

Avvocata!”, per altrə.

“No no, state sbagliando tuttə. Si dice avvocatessa”.

Un problema che sembra riguardare esclusivamente le soggettività binarie. Se una persona non si rispecchia né nel genere maschile né in quello femminile, qual è la declinazione corretta da utilizzare? Dubbi e incertezze si fanno spazio nella mente, tanto da far salire un gran mal di testa che ci fa dire “Basta, ci rinuncio”. E invece no, io non ci rinuncio, voglio trovare una soluzione alla declinazione dei sostantivi di professione valida per tuttə e una volta per tutte.

arbiter declinazione

Andiamo per ordine

La grammatica italiana parla chiaro: il femminile di direttore è direttrice, così come il femminile di redattore è redattrice, e infine il femminile di avvocato è avvocata o avvocatessa. Sono corrette entrambe le opzioni, quindi qual è il motivo per cui nella maggior parte dei casi si utilizza il maschile anche per indicare il genere femminile? In questo caso proprio il genere femminile sarebbe avvantaggiato. Oppure no.

Il “problema” dell’uso dei femminili è stato anche oggetto di interesse di numerosə linguistə: nel 2013 Cecilia Robustelli, linguista e accademica, cura “Infermiera sì, ingegnera no”, un tema di discussione sul sito dell’Accademia della Crusca in cui parla delle resistenze all’uso del femminile. Robustelli sottolinea il più grande errore comune quando si parla di sostantivi di professione, ovvero l’idea che l’utilizzo del femminile sia dovuto a linguisticə, quando in realtà il problema alla base è di tipo culturale. Utilizzare i femminili, secondo la linguista, è indispensabile affinché i ruoli ricoperti dalle donne vengano riconosciuti a pieno titolo all’interno di una società che per secoli ha alimentato il patriarcato.

Anche la social-linguista Vera Gheno è giunta alla conclusione che solo utilizzando i sostantivi femminili è possibile dare visibilità e riconoscimento alle donne, le quali molto spesso hanno dovuto sentir dire che alcuni sostantivi di professione al femminile “non vanno bene, suonano male”. Eppure la lingua è fatta di suoni, e a questi ci si può facilmente abituare (d’altronde la lingua ha subito, nel corso dei secoli, numerose variazioni a cui ci siamo pian piano abituati).

Succede che ciò che non viene nominato tende a essere meno visibile agli occhi delle persone. […] Le questioni linguistiche non sono mai velleitarie, perché attraverso la lingua esprimiamo il nostro pensiero, la nostra essenza stessa di esseri umani, ciò che siamo e ciò che vogliamo essere.[1]

professioni non binary

Cosa fare se si è in dubbio sulla declinazione corretta dei sostantivi di professione?

Può sembrare scontato dirlo, ma da quando i vocabolari vengono consultati quasi esclusivamente online, sembrano aver assunto un po’ lo stesso valore di Wikipedia – tutti sappiamo, però, che non è così. Fidiamoci dei dizionari della lingua italiana, scegliamone uno aggiornato e abbastanza moderno che sia capace di testimoniare la lingua nel presente storico. In questo modo non incapperemo in errori e una volta per tutte saremo fuori da quelle che Umberto Eco ha definito “legioni di imbecilli”.

“I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli” [2]

 

Due recenti eventi sono stati sotto i riflettori e oggetto di critiche sotto un punto di vista linguistico oltre che culturale

Mi riferisco all’elezione della rettrice dell’Università La Sapienza di Roma, Antonella Polimeni, e a Stéphanie Frappart che il 2 dicembre 2020 ha arbitrato la partita di Champions League Juve vs. Dinamo Kiev. Sono eventi di cui parla anche Vera Gheno ne parla in questo articolo  per dare risposta alle numerose obiezioni contro l’utilizzo dei termini “rettrice” e “arbitra”. Si tratta di termini assolutamente corretti, confermati anche dal dizionario della lingua italiana Zingarelli. Inoltre, i due lemmi non rappresentano dei neologismi, ma sono coppie di parole presenti già nella lingua latina nelle forme rector/rectrix e arbiter/arbitra, e poco conta che questi termini abbiano subito delle variazioni semantiche, ovvero il loro significato è cambiato. Insomma, il latino è una lingua morta, ma mica tanto oserei dire.

 

Ci sono casi in cui le donne rifiutano la declinazione al femminile dei sostantivi di professione

Il direttore d’orchestra Beatrice Venezi ha sollevato un’importante polemica durante il Festival di Sanremo 2021: rifiuta il femminile direttrice preferendo la declinazione al maschile.

“Quello che per me conta è il talento e la preparazione e soprattutto il ruolo, in un contesto molto tradizionalista e conservatore come quello della direzione d’orchestra e della musica classica. È fondamentale per una donna che non venga discriminata e chiamarla direttrice è quasi una discriminazione perché vuol dire che non ti mettono nello stesso insieme di tutti i direttori d’orchestra, è questa la verità.

Rifiutare il femminile non è una scelta legata alla grammatica, che come ho detto prima parla chiarissimo. Si tratta, piuttosto, di una scelta legata a motivi sociali e culturali.

Beatrice Venezi non è la prima e non sarà, ahimè, l’ultima. Di recente ho discusso la mia tesi di laurea magistrale presentando i risultati ottenuti da un questionario che aveva l’obiettivo di osservare l’attitudine delle persone di fronte alle tematiche di genere. Tra le varie domande, due di queste sono:

  1. Qual è la tua professione?
  2. Qual è il femminile corretto del termine avvocato tra “avvocato, avvocata, avvocatessa”?

Dall’analisi è emerso che alcune donne che hanno risposto al questionario hanno indicato la propria professione con il termine avvocato, ma alla seconda domanda hanno risposto con avvocata. Mi sono chiesta, quindi, quale fosse la ragione per cui sono stati utilizzati due termini con declinazioni differenti. Come se il maschile fosse più professionale del femminile e, riportando le parole del direttore Beatrice Venezi, meno discriminatorio.

Anche nel mondo dell’architettura alcune donne rifiutano la declinazione architetta (per un approfondimento vi rimando a questo articolo) e sollevano un enorme polverone fatto di polemiche, misoginia, patriarcato e chi più ne ha più ne metta.

 

Soluzioni inclusive contro il binarismo di genere

Eccoci arrivati al fulcro del problema. Abbiamo visto che esiste il maschile, e abbiamo visto che esiste anche il femminile (quindi, per favore, usatelo). Qual è la soluzione per i sostantivi di professione in riferimento a professionistə e persone no binary? C’è chi sostiene che bisognerebbe utilizzare ancora il maschile sovraesteso, cioè un termine con desinenza maschile per indicare tutti i generi. Più o meno quello che succede adesso, ma il problema resta.

Se possiamo scegliere di utilizzare il maschile così come il femminile, perché non poter scegliere anche un neutro? Si tratta di un problema “tutto italiano”, perché la nostra lingua non ha di per sé un genere neutro come ad esempio la lingua tedesca. Ma alcune soluzioni sono attuabili fin da subito.

Mentre per il mondo dell’architettura un compromesso potrebbe essere il termine Arch., per gli altri settori professionali si potrebbero utilizzare soluzioni inclusive come la schwa (ə). “E come si pronuncia?”, direte voi. Come suggerisce Giulia Blasi nel suo saggio “Rivoluzione Z”,

è il suono dopo l’apostrofo quando Don Pietro Savastano, in “Gomorra”, dice «Ce ripigliamm’ tutt’ chell’ che è ‘o nuost’»

E se la schwa non piace (non ditemi che non sapete pronunciarla, perché vi sento cantare le canzoni napoletane in macchina), allora perché non creare neologismi che rendano felicə tuttə? Basta solo un po’ di volontà e niente è impossibile.

 

Note

[1] Gheno V., Femminili Singolari, cit., p. 15.

[2] Nicoletti Gianluca, Eco Umberto: Con i social parola a legioni di imbecilli, “La Stampa”, 11 giugno 2015

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